"Ognuno di noi lascia su questa terra un segno
più o meno profondo del proprio esistere.
Graffiamo con vigore la vita
per imprimere un segno indelebile,
il nostro".
Il romanzo ruota intorno a tre donne il cui filo conduttore è il richiamo che punteggia la vita di Giuseppina, la voce narrante, un’attrice di teatro sociale, una girovaga del mondo per scelta.
In primo piano, si avverte il continuo sforzo della realizzazione identitaria della protagonista, che scava nelle origini della sua famiglia, tentando di preservare quel microcosmo dall’oblio, in
una realtà che cambia repentinamente e inesorabilmente, con il rischio di cancellare la sacralità delle radici ataviche della sua terra e del suo tempo. Sullo sfondo, il razzismo e l’omofobia, lo
stupro e il riscatto delle donne permeano tutto il romanzo. In questo intreccio, si collocano i ricordi di Julia, sua madre, con il richiamo del sangue, di Jolanda, la dolce sorella di latte, con
il richiamo dell’amore, e di Justine, “ebrea saffica sopravvissuta”, con il richiamo della sua identità.
La storia si dipana nella splendida Santa Cesarea Terme, dove Giuseppina torna a vivere, dopo tanto peregrinare per le periferie del mondo, raccontando emigrazioni di popoli in cammino e memorie
etno-storico-geografiche, spaziando dall’antropologia alla psicologia, poesia e letteratura. Tra le grinze della vita, tra memoria e richiami, Giuseppina riesce a riappropriarsi delle sue forti
radici, quasi un rafforzamento ancestrale, senza più timore di perderle.
Il caso ha voluto che ricevessi “Il Richiamo” (Lupi editore, Cosenza 2020, pp. 256, euro 15,00) quarto romanzo di Antonia Occhilupo, subito dopo la fine del lockdown. Avevo alcuni viaggi in
sospeso, e così l’ho letto fra un treno e l’altro.
Pensandoci su, la password per entrare nel romanzo è proprio il viaggio. Cos’è infatti la parabola di Giuseppina e Jolanda, sorella di latte, le protagoniste e del gineceo che si muove intorno a
loro, se non una continua “anabasi”, un susseguirsi di “nostoi” fra passato e presente, un’osmosi continua, incursioni nella memoria sullo sfondo della guerra e delle guerre (con tutti gli
orrori, i lager) e delle lacerazioni che provoca, lutti difficili da elaborare, ferite che mai si rinchiudono?
Un’ansia di radici, di appartenenza, di condivisione, di un senso da dare alla propria vita. E’ come se la scrittrice pugliese intingesse nel tè le madeleine di Proust, o, sulle rive del
Mediterraneo (“La mia ninna nanna è stata la sinfonia in crescendo delle onde”), bagnasse nell’acqua di mare a mò dei marinai fenici le frise per ricordare snodi esistenziali, lo spirar del
vento, i moti dell’anima (“Mi ero seduta sulla poltrona della nonna, quasi a sorbire i suoi silenzi e le sue lacrime cristallizzate, mai più versate”).
Giuseppina è personaggio drammatico, da tragedia greca, una Penelope tre millenni dopo (“prendevo il sole sulla terrazza, sognando di viaggiare per terre e mari lontani”), tesse paziente la tela,
ma a differenza della moglie di Ulisse, si guarda bene dal disfarla. Non può farlo perché è un personaggio ascrivile a un neo-umanesimo gravido di orizzonti che anelano a un uomo nuovo e a una
civiltà superiore.
Le continue citazioni del mondo classico, greco e latino, stanno lì a significarlo. Lei studia al Dams, crede nel potere salvifico del logos, della parola, della conoscenza quale
presupposto di un mondo nuovo.
E anche in questo romanzo, torna una costante del realismo magico e visionario della Occhilupo: la complicità fra donne, la loro forza dirompente, la potenza escatologica della loro energia.
Sottinteso, un matriarcato di cui non si vuole prendere atto, e di cui l’uomo ha paura: da Lisistrata a Didone, fino alle streghe del Seicento e alle donne del Novecento contadino.
In un romanzo sospeso fra sociologia e antropologia, in cui in controluce appare la solida architettura socio-economica del Novecento al Sud, prosegue il lavoro sulla lingua recuperando termini
arcaici e ricchi di storia, in cui i personaggi sono quasi schiacciati dal fato, gli uomini sono fragili, tormentati, come i personaggi di Dostoevskij.
Storie di vita, di richiami e di ritorni. Antonia Occhilupo torna a parlare di donne, e questa volta lo fa scegliendo il sole caldo di Santa Cesarea e le sue inconfondibili stradine dall'inconfondibile afrore sulfureo per ambientare il suo nuovo romanzo «Il richiamo» (Lupieditore). È una storia di partenze e ritorni quella in cui Antonia Occhilupo, medico la cui passione per la scrittura ha già regalato al lettore altre deliziose pagine (Oggi è il mio domani, Nobeldonne, Non uccidere il coraggio) oggi torna in libreria. Il romanzo ruota intorno a tre donne il cui filo conduttore è il richiamo che punteggia cronologicamente la vita di Giuseppina, la voce narrante, un’attrice di teatro di periferia, una girovaga del mondo per scelta, tra emigrazioni di popoli in cammino e memorie etno-storico-geografiche, poesia e letteratura, antropologia e psicologia. In primo piano, si avverte il continuo sforzo immane della realizzazione identitaria della protagonista, che scava nelle origini della sua famiglia, tentando di preservare quel microcosmo dall’oblio, in una realtà che cambia repentinamente e inesorabilmente, con il rischio di cancellare la sacralità delle radici ataviche della sua terra e del suo tempo. In questo intreccio, si collocano i ricordi di Julia, sua madre, con il richiamo del sangue, di Jolanda, la dolce sorella di latte, con il richiamo dell’amore, e di Justine, “ebrea saffica sopravvissuta”, come ama definirsi, con il richiamo della sua identità. La storia si dipana nella splendida Santa Cesarea Terme, dove Giuseppina torna a vivere con suo marito, dopo tanto peregrinare per le periferie del mondo, riappropriandosi delle sue forti radici, quasi un rafforzamento ancestrale, senza più timore di perderle. Con uno stile asciutto, scorrevole, immediato Antonia Occhilupo conferma la sua capacità di delicata narratrice di storie sussurrate e mai urlate. La sua terra d'origine, con le sue essenze, anche in questo nuovo lavoro sono una sorta di quinta scenografica in grado di colorare il narrato senza far perdere l'attenzione sulle vicende.